LONDON,
I LOVE YOU
Sono
stato svezzato a apfelstrudel (la torta di mele di mia nonna
slovena) e umorismo inglese.
In
famiglia passavamo le serate leggendo a turno pagine de “Il
fantasma di Canterville” di Oscar Wilde, con lo sfortunato spettro
aristocratico che quando cerca di spaventare i pragmatici yankees
(nuovi proprietari della tenuta) con spaventose apparizioni
corredate di catene cigolanti, si vede offrire con cortese fermezza
un lubrificante per oliare i suoi rumorosi aggeggi. Sapevo a memoria
l’incipit di “Tre uomini in barca (per non parlar del cane)”
di J.K.Jerome, la scena in cui lui legge distrattamente
un’enciclopedia medica ma ben presto si convince di avere tutti i
sintomi di tutte le malattie, con l’inspiegabile ed irritante
esclusione del ginocchio della lavandaia. Il primo approccio con
Pelham Grenville Wodehouse e le edoardiane storie dell’impeccabile
cameriere Jeeves e del suo tontolone padrone Berto Wooster fu
“Jeeves non si smentisce”, libera traduzione di “The code of
the Woosters” (comprai l’originale a Londra nel 2001) in cui a
Berto è richiesto di recarsi da un antiquario per esaminare una
lattiera d’argento a forma di mucca e schioccare la lingua con
disgusto, affermando che, Mio Dio, no, è un lavoro moderno
olandese! E tutto per far abbassare il prezzo del prezioso reperto.
Amo
l’Inghilterra e lo humour britannico! E l’understatement,
l’atteggiamento che “enfatizza l’insignificante e minimizza le
catastrofi”, come quel generale che arrivò in ritardo a una
riunione a causa di un bombardamento nazista: un “leggero
contrattempo”, lo definì lui. O il pungente Winston Churchill
che, a Lady Astor esasperata dal suo caratteraccio che esclama:
“Se fossi vostra moglie vi metterei il veleno nel caffè!”
risponde pronto:”E se fossi vostro marito berrei quel caffè!”
Amo
e coltivo il gusto per l’assurdo, il “nonsense”, i giochi di
parole sparsi a piene mani in “Alice nel Paese delle Meraviglie”
di Lewis Carroll, pseudonimo del serio matematico Charles
Lutwidge Dodgson.
“Guarda
per la strada e dimmi chi vedi.” chiese il Re ad Alice.
“Sulla
strada? Nessuno.”
“Ah,
se avessi gli occhi come i tuoi! – osservò il Re in tono smanioso
– Riuscire a vedere Nessuno! E a quella distanza! Pensare che con
questa luce io al massimo riesco a vedere la gente vera!”
Ho
seguito come un leopardo la carriera dei Monty Python, le cui
innovative trovate comiche spesso acutamente intellettuali (i sei
Python avevano tutti un'istruzione di alto livello) e generalmente
etichettate come demenziali, in realtà mescolano tecniche classiche
che sorprendono lo spettatore perché ognuna compare in un contesto
comico imprevisto. Ho sempre provato pena per chi avesse assistito
al film “Sliding doors” (1998, con Gwyneth Paltrow), che cita
ripetutamente la battuta dei Python “Nessuno si aspetta
l’Inquisizione spagnola!”, senza conoscere lo sketch originale
dei tre inquisitori imbranati.
Si
sa che i Python erano apprezzati dai Beatles ed in particolare da
George Harrison che finanziò il film “Brian di Nazareth” (che
nessuno voleva produrre, giudicandolo blasfemo) per poterlo vedere
compiuto. “George si è comprato il biglietto del cinema più
costoso della storia”, commentò il sestetto nel suo consueto
stile.
Amo
i musicisti inglesi, ironici e fantasiosi. Oltre ai Beatles, gli
Shadows di Hank Marvin (che raccomandava al pubblico osannante:
“Please! Please! Please!... Don’t stop!”), i graffianti Kinks
del mio rivale in amore Ray Davies (ha fatto una figlia con la mia
adorata Chrissie Hynde dei Pretenders), il mio eroe Eric Clapton, il
burbero orso Mark Knopfler, l’elegante Brian May, il testardo Pete
Townshend, l’irrefrenabile Jeff Beck, il mefistofelico Jimmy Page,
il funambolico Guthrie Govan, l’istrionico Ian Anderson (vabbè,
lui è scozzese).
Amo
e rispetto la storia della nazione che sin dal 1215 con la Magna
Charta seppe limitare lo strapotere reale e successivamente
insegnare al mondo la democrazia parlamentare.
Amo
Shakespeare e i suoi grandi registi/interpreti Laurence Olivier e
Kenneth Branagh.
Amo
il romanzo storico di Walter Scott, i gialli di Conan Doyle e Agatha
Christie, il fantasy inglese di Tolkien e Joanne Rowling (“Il
Signore degli Anelli” e Harry Potter, tanto per capirci) e anche
le storie indiane di Kipling.
Amo
la recitazione inglese, ironica e distaccata di Alec Guinness,
Michael Caine, David Niven, Colin Firth, Alan Rickman, Anthony
Hopkins, Sean Connery (vabbè, lui è scozzese) e l’incantevole
classe di Audrey Hepburn. Charlie Chaplin è inglese, lo sapete, no?
E anche la splendida Elizabeth Taylor era nata in Inghilterra e
aveva cittadinanza inglese.
Insomma,
pur apprezzando le immense collezioni artistiche del mio paese, il
suo mare, il suo sole e il suo cibo (Daninos faceva dire al
personaggio del Maggiore Thompson che un pranzo inglese può
trasformarsi in un’orrenda avventura); pur apprezzando la
leggerezza di spirito dei miei connazionali (che però spesso vorrei
un po’ più seri e affidabili), l’Italia non mi avrà mai del
tutto.
Il
mio cuore è a Londra.
26/02/2018
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