INDIAN
BLUES
Gassino - Pub Pocahontas 21/01/11
Il
Pocahontas Indian Club è uno "splendido localino" (come
diceva John Belushi/Jake Blues a proposito del Bob's Country
Bunker), dove si mangia (bene), si beve (a volontà), si ascolta
(buona) musica, su ruotanti sgabelli e comode poltrone in una
cornice di caldo legno chiaro e graffiti pellerossa, attingendo i
beveraggi dal bar a forma di scialuppa e dove l'ospitale padrona di
casa Anna è sempre pronta ad accogliere musicisti inebriati e
inebrianti a partire dal clan Largabanda. Nulla da stupirsi pertanto
se anche i poderosi BlueStyle siano stati invitati a dipingere le
pareti del locale con il blu della loro musica. La data dell'evento
è stata accuratamente stabilita e poi lucidamente spostata a causa
dei contemporanei impegni teutonici di lavoro di Marcello e Dario.
Il nostro tacito patto infatti è che un concerto dei BlueStyle può
anche avere luogo in inevitabile assenza di un componente, da
sostituire meglio che si può, ma mai di due.
Immaginate
pertanto il mio raccapriccio quando, a tre giorni dall'evento,
ricevo una confusa ma drammatica telefonata dal Tarantino: "...
Franco, mi hanno preso e non mi lasciano, 'annaggia 'a muorte! ...
Andate voi che potete... non pensate a me!..." con sullo sfondo
aspre voci imperiose: "Ach! ztaccate incenier Maccio da der
telefon! Schnell! Schnell!" A parte l'angoscia per la sorte
dell'amico, prigioniero nella sassone Lipsia e strappato agli
affetti famigliari e musicali, era evidente che dovevo trovare nel
brevissimo tempo concessomi una sia pur dolorosa soluzione. L'ottimo
e incorruttibile Davide, già sostituto di lusso (vedasi il 90° Serenata
per un amico) non era disponibile e così pure un più che
decente, anzi docente, collega del nostro Rolex. Disperato mi
rivolsi quindi per consiglio al M° Umberto Cariota, colonna
portante e suonante di molteplici formazioni e progetti e alchimie
sonore largabandistiche, che con la semplicità e generosità dei
grandi mise se stesso a disposizione, sia pure con qualche
perplessità sulla difficoltà di impadronirsi nel giro di poche ore
di un repertorio vasto e intricato. L'informatica tecnologia, da me
spesso vituperata (ma solo per la pochezza dei manuali e delle
informazioni che l'accompagnano) mi venne in aiuto, spedendogli i
files con la registrazione della maggior parte dei nostri pezzi e
confidando nelle sue capacità di assorbimento.
Sostituire
il Tarantino con un bassista, però, risolve solo parte del
problema, venendo altresì a mancare la sua ugola possente,
fondamentale in troppi pezzi della nostra scaletta. Anche qui la
soluzione fu trovata nel benemerito Coro Largabanda ed in
particolare nel Gruppo B dei contralti, dove puntai e circuii e
convinsi (tornò utile l'offerta di una mela...) la puntigliosa ed
inossidabile Pretti Woman, anch'essa pronta a raccogliere la sfida
usucapendo i brani più swingati e sofisticati, a lei più consoni,
quali Sad Old Red, Stormy Monday e My Babe. L'inusuale cambio di
genere su quest'ultimo pezzo, che da sempre viene da noi dedicato
all'altra metà del cielo, fece sì che a beneficiare della dedica
furono stavolta i maschietti ("La mia altra metà del
cielo!" puntualizzò orgogliosamente la nostra vestale).
Terza
novità sul palco fu l'esordio della mia nuovissima, prestigiosa e
sfacciata Gretsch 6120 Nashville. Il risultato sonoro, sempre uguale
nonostante l'utilizzo della mia sofisticata pedaliera, mi lasciò un
po' perplesso finché non realizzai che avevo scordato di inserire
un cavo di collegamento fra l'arancione bellezza e la strabordante
serie di pedali e scatolette sonore. I miei due affaticati neuroni a
tale scoperta si guardarono sconsolati ma ormai definitivamente
rassegnati al loro inarrestabile decadimento.
Bene,
come avrete ormai capito dal tono sereno di questo rendiconto, ben
diverso dalle ansiogene cronache di analoghe performances, il
concerto andrò benone: pur senza nessuna prova il gruppo funzionò
alla grande, i nostri nuovi ingaggi a contratto furono encomiabili
per impegno e professionalità, Marina gorgheggiò e armonizzò,
Umberto spinse e sostenne e svisò funambolico solista su Cantelupe
Island fra le occhiate di ammirazione dei bluestylers con contratto
a tempo indeterminato; il pubblico, ricco di cari e vecchi amici,
fra cui sogghignava un redivivo Luigi Baldasso, co-fondatore della
gloriosa sigla (vedasi la storia del gruppo: I
BlueStyle) fu caloroso, entusiasta e coinvolto. Nei pezzi finali
fu invitata a rinforzare il coro il largabandistico soprano Silvia
Dacomo, portando così a sette (numero magico) l'ensemble del
gruppo.
Il
sottoscritto voleva omaggiare il locale improvvisando un pezzo di
indian-blues, Medicine Man di John Mayall: "C'ho un po' di
sfiga di questi tempi - qualcosa che non avevo previsto - ho qualche
problema - aiutami come puoi - mi sento fuori fase - per favore,
portami dal tuo stregone...", ma sarà per la prossima volta.
Perchè al Pocahontas ci torneremo. E vi aspettiamo.
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