Franco e Andrea "Rolex" Roletto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA SERA CON IL RE

“Ho una sorpresa per stasera. Pesante!”

La voce eccitata di Andrea al cellulare mi fa pensare ad una chitarra nuova, magari una Les Paul, costruita in denso mogano, od una massiccia Telecaster. Invece…

“E’ un Fender Twin Reverb che ho affittato ieri da Merula. Pesa un accidente!”

Si tratta del Signore Degli Ampli, il suono più pulito e spesso e tintinnante e grintoso, la Rolls Royce degli amplificatori per chitarra. Ed in effetti è logico che un serio professionista come lui, a differenza di un superficiale edonista come me, badi al Suono prima che all’estetica, alla forma, alle curve, al feticcio.

Il Night & Day è un risto-pub annidato, insinuato direi, nel centro storico di Druento, dove, quale tarlo o talpa, si è scavato la dimora acquisendo un corridoio qui, buttando giù un muro lì, collegando una stanza là, aprendo un’arcata qua, in un labirinto che fa venire in mente le grotte di Moria, regno dei Nani della Terra di Mezzo.

L’indigeno Andrea vi è di casa ed è grazie alla sua amicizia con uno dei titolari che il nostro duo chitarristico ha ottenuto il lucroso ingaggio.

Mi guardo intorno ed apprezzo il legno scuro dei tavoli, il bancone arcuato, l’arredamento, la luce, i manifesti alle pareti. Parafrasando i Blues Brothers strascico la voce:

“Che spleeeendido localiiiino, Bob!”

Andrea annuisce e aggiunge:

“Già. E anche le ragazze.”

In effetti le cameriere del locale sono tutte giovani pollastre dall’aria sveglia e simpatica, i pantaloni aderenti e la maglietta d’ordinanza che sfoggia sulla schiena un sole che abbraccia una luna, Night&Day appunto.

L’angolo dei musicisti è il sogno di ogni esibizionista: un piccolo recinto rialzato, al centro del complesso, con un comodo divanetto (per appoggiare i giacconi), un lucido tavolino (su cui posare il mixer), due eleganti poltroncine (per i due musicisti) e una splendida presa di corrente nell’angolo più adeguato. Le mie recenti traversie ospedaliere mi hanno riprogrammato le frattaglie interne, ma a scapito del tono muscolare complessivo, ancora carente, e così approfitto del giovane socio per trasportare ed issare sugli stativi le due casse amplificate del mio impianto. Andrea le solleva con un sorriso noncurante esclamando: non pesano nulla in confronto a lui!

“Lui” è il Re di cui sopra: un frigorifero nero e argento zeppo di granito e piombo, che Andrea accarezza con uno sguardo fiero e preoccupato insieme e che trascina e spinge e solleva con gemiti e sudori. Una volta piazzatolo al suo posto, al centro del palco (e dove se no?) inizia l’approccio: l’accensione, il pre-riscaldamento delle valvole (val-vo-le, signori! nobili bulbi di vetro e elettrodi, non proletari circuiti stampati!), l’accoppiamento con lo strumento, le regolazioni, le prove, la scelta dei suoni. Ma il Sire pare disdegnare tanta familiarità e, appena richiesto di ruggire col suo canale distorto, brontola sottovoce e si nega.

Seguendo i dettami dell’antico teatro greco, che voleva le scene più drammatiche e sconvolgenti svolgersi fuori scena per non turbare il pubblico, anch’io eviterò di descrivere qui l’angoscia del Nostro, la sua disperazione e rabbia, ciò che osò fare con un cacciavite, lì, davanti a tutti, il suo calvario nel riportare il neghittoso sovrano a casa per riprendere il fedele e proletario Laney, rimasto ad uggiolare negletto ed ora chiamato al ruolo di salvatore della serata.

Mentre attendevo il ritorno del mio insostituibile socio, essendo ormai le 21.30, decisi che Andrea non si sarebbe offeso se iniziavo a mangiare un boccone senza aspettarlo. La norma è che i musicisti montano, provano, mangiano, suonano, brindano al successo, in questa sequenza. Quella sera il locale proponeva un interessante assaggio di primi ed io ero intenzionato ad approfittarne. Ma il lucido gestore non pareva dello stesso avviso.

“A mezzanotte qui si deve smettere di suonare!” mi redarguisce, sottintendendo che avremmo dovuto iniziare a momenti. Io barcollo.

“E quando si mangia, allora?”

“Potevate mangiare prima – fa lui severo – se no quando suonate?”

Così avviso telefonicamente il mio pard di sbrigarsi perché qui l’attesa per la nostra musica è spasmodica. Lui risponde che sta tornando con entrambi gli amplificatori poiché pare accertato che King Twin, lasciato riscaldare per un tempo adeguato (più o meno equiparabile alla durata della cavalcata di “In-a-gadda-da-vida” degli Iron Butterfly, diciassette minuti) poi si degna di esprimersi al meglio.

E così, con il fido Laney parcheggiato a discreta e prudente ruota di scorta, sfoderate le nostre Strato (la sua rossa e la mia dodici corde, sapientemente regolata per l’occasione), attivati i nostri optional (un potente faretto puntato sui testi per aiutare i miei stanchi occhietti; un compressore nuovo di trinca per dare botta al suono del mio strumento; armoniche e kazoo, pedalini e cavettini) si parte. Suoneremo per circa due ore e un quarto. E canterò per altrettanto, spremendo tonsille e fiato. Trenta pezzi, fra vecchi blues, blues di mezza età e blues originali miei; scatenati rock ‘n’ roll anni cinquanta; assoli claptoniani, vaughaniani, mooriani; strilli burdoniani e sussurri knopfleriani; atmosfere direstraitsiane e scivolate cromatiche hazlewoodiane.

La spada di Damocle rappresentata dal bizzoso proprietario dei muri del locale, residente al piano di sopra, ci obbligherà a ridurre, zittire, abbassare il volume fin quasi a non sentirci più. Una tavolata di tirolesi allegrotti a fine serata ci sovrasterà con possenti e alcolici cori e yodel. Ma l’affettuosa presenza di parenti (di Andrea), colleghi (miei), amici (suoi) ci sosterrà ed applaudirà con costanza fino ai cori finali di “The Blues Is All Right” e “Hit The Road Jack”, a cui il giovane pubblico si unirà immediatamente con forza e convinzione. Dopo un funambolico assolo di Andrea, commento: “Lui ha metà delle corde che ho io, ma il doppio di dita!” suscitando il rumoroso apprezzamento dei presenti.

La coda-concerto si snoda fra la pedante compilazione del borderò Siae, il tardivo rifocillamento con una sobria piadina, il brindisi con una delle prime birre che mi concedo dall’operazione, gli inevitabili e saporiti scambi di opinioni su strumenti, effetti, suoni, scelte musicali.

Serata riuscita. Gestori contenti. Pubblico galvanizzato. Un’altra tacca sui manici delle nostre chitarre.

L’unico a non condividere l’entusiasmo generale è lui, il Re. Con aria annoiata mormora sussiegoso:

“Tutto qui? E mi avete scomodato solo per questo? Ciambellano, chiudete la porta: sento uno spiffero e mi si raffreddano le valvole.”

 

21/10/2005

Home:  www.bluestyle.org