PARLANDO
DI SERGIO
“Sabato
mattina cominciammo a trasportare gli strumenti nel parco. Il posto
brulicava di persone di ogni età, ciascuno indaffarato in qualcosa
di diverso. Un mio collega, Sergio, alto e massiccio, scorbutico e
spiccio, stava tirando i fili della corrente.” (Musica Amore Mio,
Cap. 6 Socializzando, pagg. 76-77)
Sergio
compare così, nel mio libro e nella mia vita: brusco e nel contempo
disponibile. Prima di chiudere le bozze di M.A.M. lui mi chiese di
trovare il modo di citare un suo amico, Claudio, suonatore di dobro
(la metallica chitarra da blues) recentemente scomparso in un
incidente in montagna. Perchè per Sergio l’amicizia era
importante.
Nell’ambiente
di lavoro si muoveva con competenza (riconosciutagli da tutti), ma
con scarse doti di tatto e empatia, talché i più spiritosi, i più
sarcastici, o magari quelli più graffiati dal contatto con la sua
rocciosa personalità, lo avevano soprannominato lo Yeti, lo
scontroso e solitario uomo delle nevi tibetano. In effetti Sergio
viveva da solo e appena possibile, d’estate o d’inverno, si
recava in Val di Lanzo a sciare o percorrere con passo rapido quelle
montagne che amava visceralmente e fotografava con rara abilità e
gusto.
La
musica aveva creato un ponte fra di noi e, frequentandolo anche
fuori dall’ufficio (fra l'altro mi aveva generosamente e
poderosamente aiutato ad attrezzare la mia cantina che speravo di
far diventare una sala di registrazione), avevo avuto modo di
cogliere l’evento chiave della sua vita e della sua personalità:
la prematura morte del padre, lui ancora adolescente, che gli aveva
lasciato un buco pieno di rabbia e di ingiustizia. E quando, anni
dopo ed entrambi diventati responsabili dei rispettivi settori,
cercavo di fargli notare che i colleghi giovani e inesperti che gli
erano stati affidati andavano istruiti, instradati, aiutati ad
esprimere le loro potenzialità, rispondeva con pacata cocciutaggine
che quando lui aveva iniziato giovanissimo questo lavoro nessuno lo
aveva aiutato, istruito, incoraggiato, ma aveva dovuto imparare da
solo norme, regole e sottigliezze del mestiere e quindi adesso
toccava agli altri fare questo sforzo. In effetti la voglia di
lavorare, di guadagnarsi lo stipendio, era la sua unica
discriminante, il suo principale metro di giudizio. E i colleghi che
secondo lui avevano accettato la sfida, che si erano messi in gioco
senza lamentarsi, che avevano dimostrato disponibilità e costanza,
potevano contare sulla sua stima e sul suo sostegno. Una volta nel
comitato di direzione, di cui facevamo parte entrambi, fu posto il
problema di non concedere l’annuale premio di produttività a
tutti i dipendenti in misura intera, ma per motivi di principio (e
di rispetto delle norme sempre più asfissianti in materia) si
dovevano individuare quelli un po’ meno meritevoli e premiarli in
proporzione. Lui ascoltò in silenzio il faticoso elenco che si
stava costruendo e poi intervenne con decisione a favore di una
collega, non del suo settore, e disse chiaro e tondo che ogni
contatto lavorativo avuto con lei era stato positivo e adeguato e
non riteneva giusto penalizzarla. Poteva stare zitto, non era un
problema che lo riguardasse direttamente, ma ai suoi occhi era
un’ingiustizia e la denunciò. La spuntò lui.
Quando
decise di cambiare casa mi offrì la sua (cercavo una sistemazione
per mia madre più vicina e comoda) a un prezzo da amico. Mentre la
visitavamo, borbottò con un ghigno: “Se questo letto potesse
parlare e dire cosa ha visto...” ma si fermò e non aggiunse
altro, ligio al detto “il gentiluomo gode e tace”.
Era
stato lui a coinvolgermi nelle pazze serate musicali e gaglioffe del
venerdì (che trovate qui).
E negli ultimi tempi era con lui che facevo le mie rare camminate in
montagna (una è resocontata qui).
Con le sue splendide foto avevo realizzato il video-clip di una
antica ballata irlandese che parlava della natura che si risvegliava
(questo).
In
genere nelle nostre serate di soli uomini si parlava di donne,
musica e motori e lo sfottò e il cazzeggio erano all’ordine del
giorno. Ma nelle discussioni serie (le nuove generazioni, i diritti
degli omosessuali, la crisi economica, le magagne della politica)
sapeva prendere posizioni nette e decise e dalla parte giusta
(giusta secondo me, ovviamente).
Chitarrista
dilettante e curioso, negli anni gli avevo ceduto un sacco di
strumenti e ammenicoli vari, ma recentemente aveva deciso di
ridimensionare il suo parco musicale e mi aveva restituito diversi
oggetti dicendomi di farne cose volevo, se trovavo da venderli
avremmo fatto a metà. Io obiettavo che la roba era sua, a suo tempo
me l’aveva pagata e quindi il ricavato sarebbe dovuto andare tutto
a lui, ma lui tagliava corto: sui suoi criteri di meritocrazia non
transigeva. Il caso volle che un paio di aggeggi elettronici nel
frattempo erano diventati vintage e ricercati e li vendetti per una
bella sommetta. Così gli misi sul tavolo una fila ordinata di
banconote chiedendogli sornione se era sempre d’accordo nel fare a
metà. Stupito per la cifra realizzata rispose sì, certo e subito
divise in due il malloppo. Al che io sparai la battuta che mi ero
accuratamente preparata: “Sergio, non hai capito niente. Quella
è già la tua metà!” Restò di stucco per il lauto guadagno e
comunque insistette a lasciarmi ancora qualcosa come riconoscimento
per la mia proficua intermediazione.
Lo
scorso ferragosto, per la prima volta sulla mulattiera l’ultimo
della fila non ero io ma lui, che si sentiva dolere le ossa e
mancare il fiato, le prime avvisaglie del male che l’aveva
silenziosamente e spietatamente aggredito.
Gli
ultimi granelli di sabbia nella clessidra gli portarono la stupita
constatazione di avere molti più amici di quanti pensasse e
pensasse di meritarsi. Ma forse un motivo ci sarà stato.
Non
so come affrontasse il pensiero dell’al di là e quale fosse la sua filosofia in
merito, né voglio seccarvi con le mie idee in materia.
Quello
di cui sono sicuro è che, qualsiasi cosa sia rimasto di Sergio, ora
è lassù.
Sulle
nostre montagne.
(11/11/14)
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