SEX
AND BLUES
Magazzino di Gilgamesh - Torino 12/02/10
L'Ultimo
Valzer, il concerto di addio del gruppo canadese che si faceva
chiamare semplicemente The Band, dopo sedici anni
passati on the road, girato il 25 novembre 1976 al Winterland
Ballroom in San Francisco da Martin Scorsese, fu un evento, un film,
una celebrazione, una scommessa. L'idea di immortalare l'energia e
la passione musicale dei cinque musicisti che avevano accompagnato
Bob Dylan dal vivo e nell'album "Blonde On Blonde", venne
quasi per caso, e per il regista, impegnato in quel periodo a girare
"New York, New York" con Liza Minnelli, fu un autentico
tour de force, dovendo fare i conti con la scarsità di mezzi, di
operatori, di pellicola, i limiti tecnici di cineprese che, dopo ore
di filmato, si surriscaldavano e bruciavano, con l'ambizione di
filmare sette ore filate di concerto, che aveva un elenco
incredibile di ospiti: Ronnie Hawkins, Bob Dylan, Eric Clapton,
Muddy Waters, Paul Butterfield, Neil Young, Joni Mitchell, Van
Morrison, Dr. John, Emmylou Harris, The Staples Singers, Neil
Diamond e ancora, nel gran finale, Stephen Stills, Ringo Starr,
Ronnie Wood.
Ci
furono problemi. Errori. A un certo punto, per un malinteso, tutti
gli operatori si presero una pausa e fu proprio in quel momento che
salì sul palco Muddy Waters. Quando Scorsese lo vide e sentì
l'inizio di Mannish Boy, impazzì. Correva di qua e di là per
cercare qualcuno che filmasse, per non perdere quel momento di vero
intenso blues, "una cerimonia religiosa in una cattedrale
gigantesca". "C'è qualcuno che sta filmando?"
ruggiva esasperato. Laszlo Kovacs era rimasto dietro alla sua
macchina, solo lui, e così, prima che arrivassero di corsa i suoi
colleghi per riprendere il finale della canzone, noi possiamo vedere
nel film quel pezzo inquadrato da un'unica posizione, quella di
Laszlo. Ma vederlo, perbacco! E distinguiamo bene, alla sinistra del
grande Waters, il suo chitarrista, un ragazzone bianco riccioluto,
non ancora trentenne, che risponde al nome di Bob Margolin (si
pronuncia Màrgolin e non Margolìn: non è veneto).
Ebbene,
questo chitarrista, questa storica tessera dell'eterna leggenda
blues, ce lo ritroviamo sul palco del Magazzino di Gilgamesh (e dove
se no?) nella quarta edizione dell'omonimo Blues Festival. Siamo lì,
come da affettuosa abitudine, perché la serata è aperta dai Chicago
Sound Machine di Andrea Preto, in cui milita il nostro Miki
Bergantino, detto Miki-Mago, ovvero il Tornado dell'Hammond.
Formazione e repertorio in parte rinnovati, ma sempre nella matrice
blues con influenze funky, trainata dalla voce, chitarra e carisma
di Andrea.
Ed
ecco che arriva Bob "Steady Rollin'" Margolin, alto,
barbuto, affabile, una Les Paul Gold Top '68 al collo (modello dalla
timbrica più squillante, dovuta ai pick-up soap bar, che
sostituiscono i classici e caldissimi PAF) e una presenza scenica
che, già dall'introduzione solitaria, seduto sull'ampli, senza
nemmeno microfono, riempie la sala e i cuori.
Non
me ne vogliano gli altri chitarristi presenti, amici carissimi e
invidiati, ma la differenza fra loro e Bob è tutta sotto la
cintura. Loro sono bravissimi, velocissimi, fantasiosi, perfetti
nelle loro pentatoniche vertiginose e nei loro riff micidiali. Ma
sono troppo educati e rispettano troppo la loro compagna. Bob sul
palco la sua Les Paul se la scopa. Non c'è altro termine. La prende
e la fa gridare e gemere e urlare e strillare e implorare ancora,
ancora! Con lo slide e con il plettro da pollice, con le dita e con
la mano aperta, proponendoci (ovviamente) Mannish Boy e Spoonful e
Got My Mojo Working, Bob con la sua chitarra fa sesso e ci trasmette
un'energia incredibile e contagiosa.
Divertito
e divertente, si concede battute, ricordi, commenti. Generoso come
solo i Grandi possono permettersi di essere, invita spesso ad
applaudire il trio che lo accompagna, a cui lascia spazio e gloria;
fa salire Andrea sul palco e gli presta la sua donn… pardon,
chitarra, riciclandosi al basso. Poi, fingendo di averlo scoperto
solo ora, cerca in sala, con la mano sulla fronte, John Primer,
chitarrista nero che lo sostituirà domani sera in questa sala
(insieme al nostro Dario Lombardo), come, combinazione, lo sostituì
nella band di Muddy Waters quando Bob se ne andò per intraprendere
una grintosa e luminosa carriera solista. E di nuovo è uno scambio
di abbracci, strumenti, ruoli, assoli, risate. Accanto a me qualcuno
commenta: "Accidenti, quanto si divertono. Ma il gestore li
paga anche?" e, nonostante sia una frase decisamente antipatica
e antisindacale, in particolare per chi, come noi BlueStyle, conta
su un prossimo ingaggio qui al Gilga, onestamente non posso dargli
torto. Il blues deve essere energia e passione e divertimento. I
bluesmen sono sempre in bolletta, ed è così che deve essere. Si
fotta lo sporco denaro! Evviva il blues ed evviva il grande Bob
Margolin!
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