“Su quei monti raccoglievo mirtilli
parlavo coi rospi, tagliavo i noccioli
cacciavo le serpi e ascoltavo i grilli
e là i miei pensieri parlavan da soli...
Vedi, è là che ho passato l’estate
Vedi, è là che ho passato l’estate di tanti anni fa.”
(“Rimembranze” - F.Nervo, 1974)
Valli di Lanzo. La mia residenza estiva dalla nascita al matrimonio.
Sì, certo, si andava anche in vacanza al mare, prima in Liguria con
zie e cuginette, poi spavaldamente in campeggio con amici (e amiche).
Ma il mare non mi ha mai dato il brivido di appartenenza che invece
sentivo fra i miei monti. Il mare era apparenza, la montagna sostanza.
Il mare era una vetrina di vanità, la montagna un esercizio di
autonomia. Il mare, con la sua acqua imbevibile, sembrava non mi
garantisse sopravvivenza come invece faceva la montagna con le sue
sorgenti e i suoi frutti facilmente conquistabili: more, mirtilli,
lamponi, ribes e mele, castagne, funghi. Gli anni sono passati e non
ho sempre potuto scegliere le strade da percorrere, ma ancor oggi,
quando il muso della mia auto sorpassa Lanzo e comincia a sgranare le
pittoresche stazioni ferroviarie della valle (Germagnano, Traves, Losa,
Pessinetto, Mezzenile, Ceres) il mio sangue si trasforma in Idrolitina,
diventa frizzante e io sento salire un calore e un’emozione sempre
uguale. C’è chi dice che è un fattore puramente biologico: è la
pressione atmosferica che varia e arreca piacevoli benefìci al mio
organismo e al mio sistema circolatorio. Sessè, dicano quello che
vogliono: per me è Amore.
Da adolescente non condividevo troppo le scarpinate di gruppo. Qualche
volta mi facevo prendere dalla pigrizia e cercavo di snobbare quelle
camminate in fila indiana, fra boschi e ciaplé (pietraia,
ghiaione), con la borraccia di alluminio, i panini con la pancetta
(tagliata sottile, quasi sbriciolata), la tavoletta di cioccolata - o
la mattonella di fruttino Zuegg - nello zaino di tela militare. Una
volta però, il medico condotto della valle, grande amico di famiglia,
mi propose col suo tono brusco e allegro di accompagnarlo l’indomani
in una serie di visite che doveva effettuare ai suoi mutuati di alta
quota. Senza pensarci dissi di sì e arrivai a procurarmi anche un paio
di pedule nuove e adeguate. La camminata, iniziata all’alba, serviva
anche a sgranchire i due bracchi del Doc preparandoli alla prossima
stagione venatoria. Fu una giornata pesante, faticosa, ma incredibile.
Ogni baita visitata dava origine ad una piccola e ruvida cerimonia di
accoglienza, offrendo caffè (micidialmente corretto con dinamite, o
almeno così parve all’astemio me), vino, toma, polenta o altro. Ogni
angolo, ogni pianoro, ogni picco veniva indicato e descritto dalla mia
guida. Scoppiò un temporale e ci riparammo a ridosso di un alpeggio
chiuso e deserto, stringendoci ai cani. Tornai a casa col buio,
esausto e entusiasta.
E’ passato un po’ di tempo, ma qualche passeggiata in Val d’Ala (la
valle centrale, fra la Val Grande e la Val di Viù) riesco ancora a
farla, complice e promotore l’amico e collega Sergio, molto più
costante e coerente di me nell’amore per quelle rocce, fra cui si è
ritagliato un piccolo accogliente nido da cui svolazza in ogni
stagione, scarponi o sci ai piedi e foto/videocamera al collo.
Ovviamente mi unisco a lui solo quando le sue proposte sono
compatibili con le mie articolazioni rigide e il mio fiato corto. La
valle finisce nell’ampio Pian della Mussa. Senza spingerci fino allo
storico rifugio Gastaldi (che d’altronde ho visitato più volte nelle
mie vite e gambe precedenti) nei dintorni ci sono tante piccole mete
che meritano un paio d’ore di cammino, uno spuntino, magari una
paparazzata a vigili marmotte o agili stambecchi, e un ritorno a valle
per un pranzo come si deve e una schitarrata fra amici. Oggi la meta è
il santuario di Santa Cristina, a picco sopra Ceres, sentinella fra
due valli. Tre è il numero perfetto e quindi con me e Sergio c’è anche
Saverio (i curiosi possono vedere e leggere di loro qui). I ruoli sono
equamente suddivisi: Sergio è il capo, la guida, decide dove si va,
quando ci si ferma, quando e cosa fotografare, quando ripartire. Di
poche parole, non risparmia però i commenti e la sua disapprovazione
per la nostra attrezzatura: la mia, in via di perfezionamento, quella
di Saverio in genere minimale e approssimativa, ma anch’essa, a fronte
di imperiose sollecitazioni del Capo, in via di (forzata)
regolarizzazione. Saverio è positivo, allegro, canterino,
comunicativo, infaticabile. Io sono discontinuo: in salita uso il
fiato più che altro per ansimare, ma nelle soste e in discesa
pontifico, analizzo, chioso, divago, illustro e puntualizzo. Gli
argomenti non ci mancano: confronti su ora e allora, il futuro dei
nostri ragazzi, come sorridere alla vita, l’elenco delle nostre
antipatie, acquisti e scelte tecnologiche, scale di valori, spettacoli
e cultura, l’analisi dell’aria che respiriamo, cibi e digestioni e la
Musica, passione comune.
Oggi ho ansimato e scricchiolato un po’ più del solito, con visibile
soddisfazione dei miei amici (di uno almeno) che sono stati così
risparmiati dalla mia logorrea e prosopopea. In realtà era tutta
finzione – avevo tutto il fiato che mi serviva e anche di più – ma è
stato un astuto stratagemma per convincerli che non sono poi così
insopportabile, fastidioso, verboso, inarrestabile, pesante,
insostenibile e balzano. Così forse mi invitano ancora a una prossima
escursione. Io, lontano da quelle montagne, non riesco proprio a
stare.
9/11/13
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