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Dario Lombardo & Phil Guy
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CERCATORI D'ORO BLUconcerto al Gilgamesh di Torino - 1/4/2006 Il dubbio, la domanda si insinua irrefrenabile: ma Robert Johnson, quando fece il patto col Diavolo giù al crocicchio (crossroads), ottenne solo gli accordi del blues in cambio della sua anima, od anche l’eterna giovinezza? E’ quanto mi chiedo nel vedere sul palco del Gilgamesh Dario Lombardo e The Blues Gang. O è solo uno scherzo di questo primo d’aprile? Dario è stato il mio maestro quasi vent’anni fa ed eccolo lì giovane come l’aglio, lustro come la mela di Biancaneve e scattante come un salmone. E la cosa vale per i due ritmici Massimi (Bertagna e Pavin) e Andrea “The Rooster” Scagliarini, ruspante come il galletto del soprannome, piegato in due a soffiare nelle sue piccole cerbottane e a fare il verso al leader fra chiamate e risposte. In verità, però, qualcosa di diverso almeno in Pavin c’è. Dovete sapere che un mancino ricco si comprerà uno strumento a lui congeniale, cioè costruito ad hoc, speculare rispetto a noi destri. Uno povero se ne farà prestare uno normale da un amico gentile e – dovendolo restituire intatto – semplicemente lo ruoterà, suonandolo come può, cioè con le corde spesse anomalamente in basso, e imparerà a suonare così, come Albert King, ad esempio. Ora, Massimo P. è un mancino del primo tipo e l’ho sempre visto suonare un basso Fender destro rigirato. Stasera invece il suo basso non mi convince e dopo un attento esame scopro che il manico è destro ma montato su un corpo mancino. La soluzione gli ha fatto sicuramente guadagnare in ergonomicità e tale personalizzazione testimonia di una raggiunta agiatezza di cui mi rallegro.
L’ultima fatica di Dario è del 2003 e s’intitola Searchin' For Gold, dieci tracce di cui nove composte da lui ed una cover. Perché Dario ha preso la rincorsa dai classici, ha masticato blues del Delta e di Chicago, lo ha suonato spalla a spalla con tutti i più grandi maestri neri, l’ha innaffiato con aromi di funky e english blues, ha filtrato, shakerato e ci serve un piatto assolutamente personale, dove l’autore e l’esecutore, il cantante e il chitarrista, il gruppo ed il solista sono ormai tutti riconoscibili e inconfondibili, dal vibrato della voce potente, agli assoli puntuti e spigolosi, alle ritmiche incalzanti, alle timbriche asciutte e nitide (“Dario Lombardo suona chitarre Blade” recitano i credits sulla copertina e noi esperti e maniaci sappiamo appunto che la loro caratteristica è una liuteria di grande qualità – svizzera, come il costruttore Levinson – e un'implacabile definizione del suono). La componente funky la ritrovi in certi pezzi costruiti su un solo accordo, un solo riff, eppure tenuti in continua tensione come un equilibrista sul filo. Altre songs invece rimandano alla lezione inglese nella quadratura del pezzo, nell’alternanza fra armonie contigue, nella spinta, nell’urgenza (New Age Blues, Bad Neighbourhoods e la title-track con un trascinante assolo finale di due minuti). Episodio a parte la dolcezza di K’s Waves, uno strumentale per cui possiamo scomodare senza sforzo Peter Green e Santana e, naturalmente, la grande ombra di B.B.King.
Il concerto ha concesso uguale spazio alle composizioni di Dario e ai classici dei Maestri, da Willie Dixon a Chester Burnett, come se il leggendario crocevia si fosse sviluppato in tutte le direzioni, trasformandosi in una rete, una ragnatela in cui rimangono impigliati tutti i blues mai scritti o cantati. Il blues va avanti. Anche perché ieri sera, un passo dietro al leader, c’era un giovanissimo Marco Rafanelli alla chitarra ritmica, una chitarra varia e preziosa, dita lunghissime, veloci, attente e intelligenti in corsa continua sul manico della Stratocaster. Young Blood, lo appellava Dario: il sangue giovane che si prepara (il più tardi possibile, certo!) a raccogliere il testimone e portare il blues, il nostro blues, un po’ più in là, un po’ più avanti, oltre. Verso l’infinito.
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