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I WOLFSTONE, da sinistra: Duncan Chisholm (violino); Alyn Cosker (batteria); davanti: Stuart Eaglesham (gtr e voce); dietro: Ross Hamilton (gtr, basso e voce); Stevie Saint (cornamusa e flauto)

 

Duncan e Stuart fondano i Wolstone nel 1989. Il suono amalgama e alterna le sonorità e le musiche tipiche scozzesi a ballate originali scritte da loro. La formazione subisce molti rimaneggiamenti, sempre ruotando intorno ai due leader. Ross passa recentemente dal basso alla chitarra solista, sostituito da Colin Cunningham. L'ultimo album in studio è Almost an Island, del 2002. 

 

E' difficile focalizzare e definire il suono dei Wolfstone. "Rock" e "celtico" non bastano. La base ritmica di basso, batteria e chitarra (Stuart) è sofisticata, molto tecnica, a volte swingante e jazzata, a volte reggae, etnica o techno. I cori (Stuart e Ross, ma anche Duncan e Stevie) sono ricchi e pieni e possono gareggiare con gli America e Simon e Garfunkel. La chitarra di Ross (un Lucignolo lungo e saltellante) è acuta, acida e sferragliante, molto personale e rimanda alla lezione minimalista di The Edge degli U2. La cornamusa (Stevie) è precisa, perfettamente intonata, melodica, suonata con eccellente padronanza. Il mix fra la base rock e gli strumenti folk, violino e cornamusa, è arioso, intenso e colpisce per la perizia degli strumentisti e per il rigore che li porta ad usare gli strumenti originali e non le comode tastiere campionate. Gli strumentali sono carichi, eccitanti, ballabili, emozionanti. I Wolfstone stanno alla musica rock, come un ristorante italiano sta a un McDonald: è questione di ricetta, di classe, di serietà, di gusto. 

Mi arrampico sui vetri di questi paragoni perché è vero, faccio fatica a capire e descrivere compiutamente il loro suono e le sensazioni che dà. D'altronde ha detto tutto Isabella, qua a lato.

 

Comunque, quando Ross ci ha invitati a unirci al coro, ho gridato "Back home! Back home again" come se veramente stessi tornando a casa. L'ho cantato, modulato, armonizzato; ci ho ficcato il fegato e l'anima. Ho cantato con i Wolfstone, perbacco!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL SUONO DELLA PIETRA DEL LUPO

concerto dei Wolfstone - Busto Folk 30/9/2006

 

IL TERZO TEMPO DI BUSTO FOLK   ovvero   COSA NON SI FA PER SFUGGIRE LA STATISTICA

di Isabella Basso

 

Non era mia intenzione scrivere un Terzo Tempo* sull’ultima serata di Busto Folk 2006, il festival di musica folk che si tiene ogni anno a Busto Arsizio. Avrei volentieri delegato un Novantesimo Minuto di Franco Nervo all’arduo compito di esprimere atmosfera, personaggi, episodi e, sopra ogni altra cosa, ciò che più di ogni altro elemento gli è familiare, grato e affettuosamente legato: la musica. 

Si dà il caso, però, che l’onere di scrivere un Terzo Tempo si trovi in questo momento ad essere un’ottima scusa per sfuggire a qualche ora di studio di quella orripilante disciplina che, come serpe squamosa, si annida perniciosa dietro ogni angolo della mia vita, che popola i miei pensieri e la fa da padrona nei miei peggiori incubi, e che i comuni mortali nomano “statistica”.

Ma c’è anche un altro motivo che mi ha spinta a prendere carta e penna (virtuali) e a buttar giù qualche pensiero: non vorrei mai che il mio illustre e venerabile collega, il quale, come avrete compreso, mi ha fiancheggiata nella mia escursione fra i bustocchi, il mio collega - dicevo - da bravo musicista qual è risultasse troppo magnanimo o altresì eccessivamente sgarbato nei confronti degli artisti che si sono succeduti sotto i nostri occhi, dei quali abbiamo simmetricamente e specularmente ammirato aspetti differenti.

Insomma, Franco non capisce niente, e toccherà a me dispensare complimenti e rimproveri! Non ci si può mai fidare si nessuno! Che vita grama!

 

A Busto Arsizio ci troviamo ad annegare in un fiume a più correnti di cani, ragazzi avvolti in mantelli, personaggi vestiti da antichi Celti, baldi giovani fasciati da maglie di Dolce&Gabbana e fanciulle dedite agli sprechi (il commento di Franco: «guarda quella con la camicetta bianca - accennando a una pulzella con l’indumento generosamente sbottonato - che sprecona! Tutti quei bottoni... e non li usa!») che io decapiterei volentieri in qualità di inquinatori di un Ambiente Sacro...   Noi ci disperdiamo insieme al flusso di visitatori lungo le viuzze lì attorno, che per l’occasione fanno da sfondo a una quantità di bancarelle piene di spade, pugnali, indumenti a tema fantasy, libri, disegni, calendari, anelli, ciondoli, soprammobili e tutte quelle altre cosucce meravigliose e assolutamente inutili che seducono quasi sempre il mio spirito spendaccione. Stavolta però resisto imperterrita, fino a quando non torniamo nella piazza e prendiamo posto per il primo degli spettacoli a cui siamo interessati. Si tratta degli Scotia Shores, gruppo di danze scozzesi di origine veneta. Le donne sfoggiano lunghi abiti bianchi, decorati da un tartan che scende dalla spalla alla vita per poi cadere elegantemente sulla gonna. Gli uomini sono in camicia bianca e kilt. Le donne che impersonano ballerini maschi recano maglia nera e gonna a fantasia scozzese. Così, fra ancestrali danze delle spade e balli dalle interessanti figure geometriche, su musiche nelle quali riecheggiano immagini di nobildonne e gentiluomini della Scozia settecentesca, scorre via una piacevole ora, ricca di armonie e passi ariosi.

Mentre i miei genitori si sfamano, Franco ed io ci sacrifichiamo stoicamente e rimaniamo in piazza a tenere quattro sedie occupate in quarta fila. Sacrificio decisamente ripagato, peraltro, perché ci offre la possibilità di goderci la musica delle valli lombarde ad opera dei Vioulinàires, due violini, un violoncello e un contrabbasso. Uno dei due violinisti mi ossessiona: alto, snello, capelli candidi, sciolto e disinvolto nel raccontare aneddoti e nel contestualizzare i pezzi musicali. Sono certa di averlo già visto. E poco dopo, mentre i tecnici tentano di asfissiarlo con banchi di fumo stile nebbia in Val Padana, arriva l’illuminazione: ma certo! È Maurizio Padovan, che avevo avuto il piacere di ascoltare alla Biblioteca Arduino di Moncalieri all’interno di un concerto dell’Accademia Viscontea Donna Mi Fa Cantar, in occasione della Festa della Donna dell’anno scorso! Allora suonava la viella e la ribeca, ed era parte di un organico più ricco e numeroso; stasera invece sfoggia un violino di 200 anni fa e sono solo in quattro, ma è proprio lui! Si alterna e gioca con grazia a fianco dell’altro violinista, che pare più sanguignamente aggrappato al suo pezzo di legno, quasi fosse lui stesso uno strumento del violino. Costruiscono cortesi ricami con la colorata allegria popolare, accompagnati dal fedele violoncello e dal gentile contrabbasso. Terminano con un Paganini riveduto (e corretto?) e con un inchino lasciano il palco.

Arrivano i miei genitori e arriva anche il gruppo successivo: i Lingalad, che secondo i miei carenti e lacunosi studi di elfico tolkeniano significa “Nota di luce”. In effetti proprio di Tolkien essi vengono a parlarci, con una serie di ballate ispirate al Signore degli Anelli. Canto e controcanto, un basso, due chitarre, un dulcimer (suonato con una penna d’uccello), una ghironda, un bouzuki, un flauto. Testi in italiano, musica moderna con parole che richiamano altre epoche, un miscuglio intrigante di strumenti elettrici e antichi. L’unica cosa che lascia a desiderare e andrebbe forse curata maggiormente è la metrica. In un verso riescono a far stare cinque sillabe, in quello successivo anche dieci. Franco, per il quale la metrica è sacra, storce il naso. In più è anche insofferente ai testi in italiano e le cose che ammira in questi artisti sono le musiche, la tecnica e il suonatore di chitarra, di dulcimer e di ghironda. Io mi commuovo sul pezzo dedicato a Beren e Tinùviel, e non posso che sentirmi vicina a questi poeti un po’ indisciplinati, forse, ma emozionanti, attenti a fiabe dimenticate, in contatto con lo Spirito di un mondo che pochi ormai sanno ascoltare e amare.

Seguono i Birkin Tree, liguri, unione di musicisti che - ci confessano - da molto tempo non si ritrovavano su un palco tutti insieme. Sfoggiano bodhran, flauto, uillean pipe, chitarra e due violini i cui proprietari sono la vera e propria anima del gruppo. È facile capire perché li abbiano collocati proprio in centro: uno di mezz’età, l’altro più giovane, uno robusto, l’altro atletico, uno oscilla ritmicamente mentre suona, l’altro vibra quasi fosse il prolungamento del suo strumento. Ma il modo di spezzare i crini dell’archetto per la passione e il trasporto è identico. Tutti i componenti scherzano, chiacchierano, ridono ed è percepibile l’amicizia che li lega. La loro irish music non poteva essere eseguita con maggior perfezione, ma soprattutto non avrebbe potuto essere immersa in atmosfera più calda e gioiosa.

Infine ecco comparire sul palco le primedonne della serata, i grandi stranieri, i Signori delle Highlands: i Wolfstone.

Le pietre del lupo sono sei. Batteria, basso, cornamusa/flauto, chitarra acustica, chitarra elettrica e violino elettrico. Due voci. Sono giovani, sono ragazzi, guardandoli dalla quarta fila, c’è da dubitare che qualcuno superi i trent’anni (in realtà Stuart e Duncan sfiorano i quaranta - nota del disincantato Franco).

Con il loro rock celtico Busto Folk si scatena. Ci chiedono di alzarci in piedi, di alzare le mani e accompagnarli. Ci fanno saltare, ballare. Perfino Umberto Crespi, insegnante e fondatore di una famosa scuola di ballo irlandese, che ormai da anni partecipa e bazzica a Busto Folk e quest’anno figura perfino tra gli organizzatori, si scatena insieme ai suoi allievi.

E i Wolfstone danno tutto. Nel senso che mollano i freni e si entusiasmano con noi, si esibiscono in assoli (spossante e stupefacente quello del batterista, che suscita un violento applauso fuori programma), ci concedono un bis - ma non gli autografi dopo il concerto: prima devono mangiare, che se no deperiscono.

Suonano per un’ora e più. E alla fine, quando li lasciamo abbandonare il palco e facciamo su bagagli e burattini per rimetterci in marcia, la stanchezza e la soddisfazione per la bella giornata trascorsa si accompagnano agli interrogativi: cosa c’era nei Wolfstone? Non era solo rock e le incursioni celtiche sono state limitate (la cornamusa ha taciuto molto, purtroppo, per lasciare spazio ad un più melodico flauto). E allora che cosa avevano di speciale? Cosa li ha caratterizzati, cosa li ha differenziati da tutti gli altri?

Franco, musicista, ricerca in ritmi e sonorità la spiegazione. Hanno espresso un genere che al momento gli sfugge, delle inflessioni inaspettate, qualcosa a cui non riesce ancora a dare un nome.

Io, studiosa dell’umano, ma soprattutto profana di musica e ammiratrice dell’emozione, potrei parlare di forza, potenza, energia che possono essere solo scozzesi; di una cornamusa appoggiata su una batteria possente e un violino elettrico che unisce tradizione millenaria e suoni moderni; di un’abile chitarra ritmica e una brillante, superba chitarra elettrica, di un basso che costruisce, insieme alle percussioni, il corpo sul quale poi gli altri strumenti vanno a disegnare, incidere, modellare, graffiare immagini, volti, figure.

Eppure... eppure io rimango dell’idea che tentare di dare etichette agli artisti, e in particolare a personaggi quali i Wolfstone, così versatili e metamorfici, così capaci di fondere decine di sfumature diverse, sia non solo inutile, ma quasi irrispettoso. Non è possibile sacrificare in barattoli di vetro emozioni, sentimenti, sorpresa, passione.

L’unica possibilità per comprendere è andare ad ascoltarli. E a sentirli.

 

 

* "Terzo Tempo" è un'espressione in uso nel rugby e significa i commenti ed i cazzeggi a fine partita, in un clima informale e disteso. Isabella, appassionata di rugby, preferisce questo termine al mio "90° minuto". Ma è la stessa cosa.  

 

 

 

I Wolfstone a Busto Folk - 30/9/2006 (foto: Giulia Bozzi)