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Edizioni Cultura e Società 2023
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Chitarre, volpi e altre storie
E' il terzo volume di memorie musicali, dopo 'Musica Amore Mio' e 'Il Blues & il Graal' e copre gli anni dal 2005 al 2023. Come i precedenti narra, utilizzando i cosiddetti "90esimi minuti" (ovvero commenti a caldo e in chiave ironica) eventi, concerti, riflessioni, intrecci e contatti con altri personaggi e musicisti. In particolare il titolo ammicca con affetto ed orgoglio al duo Red Fox, la Volpe Rossa (alias Donata Guerci e me, che per coerenza sono Silver Fox, la volpe grigia).
Ecco una piccola selezione random da alcuni capitoli.
MASCHI La formula è “polenta e chitarre”. Alla polenta ci pensa Nello, con pazienza e abilità. Alle chitarre tutti gli altri, a partire dal padrone di casa Saverio, che ha recentemente rinnovato il suo parco strumenti con la consulenza di amici esperti, e poi il ruvido Sergio, il funambolico Luigi, il saggio me. Questo è lo zoccolo duro della serata, ma sono attesi e arrivano con lieve ritardo ancora Bruno e Danilo. Sette maschi il cui baricentro sono i cinquant’anni, oscilliamo tutti lì intorno chi più chi meno. La lingua franca è il piemontese, usato per lo più per le coloriture, le inflessioni, la sua buffa sbracatezza a cui si adattano anche i pochi terroni e meticci presenti. Lo stile della serata è unico e inconfondibile: una pausa, uno stacco da lavoro-problemi-casini-seriosità-famiglie e donne. Soprattutto, come vedremo, donne. Nella stanzetta della vecchia cascina ai margini della campagna alpignanese – ai margini, diremmo, della vita solita e arcigna – ci si aspetta quasi di sentire esplodere, prima o poi, l’esclamazione di Gastone Moschin in “Amici miei”: “Ragazzi, ma perché non siamo tutti finocchi?!”
LEZIONE DI BLUES “Il Blues: la musica del diavolo” - Alpignano 28/3/2008
“La vita in rosa”, “sono nero”, “sono al verde”. Anche nella nostra lingua i colori sono associati a situazioni e stati d’animo. In inglese “blue” oltre che azzurro vuol dire triste, melanconico. Musicalmente, il blues è il lamento solitario del nero d’America, che fra una lacrima e un sorriso canta il suo girovagare, i suoi amori sfortunati (o anche fortunati, e in questo caso usa ardite metafore sessuali), l’essere in bolletta, la fatica di affrontare una vita non certo facile in un mondo dove non è più schiavo ma ancora povero e emarginato. A differenza degli spiritual e dei gospel, che sono canti corali ad argomento religioso, interpretati in modo semplice e accorato dalla comunità nera – che del Vecchio Testamento ha colto e si ritrova nella schiavitù di Israele in Egitto, e sogna ingenuamente l’arrivo di un Mosè o un Giosuè che giunga a riscattarla e la guidi verso la libertà – il blues è canto individualista e profano, spontaneo e non indotto, canto del sarcasmo e dell’amarezza, pieno di doppi sensi, sottintesi e ammiccamenti gergali. Armonicamente presenta di solito una struttura semplice, che ruota intorno a tre soli accordi. Il testo è composto da tre versi, il secondo in genere ripete il primo, rafforzandone il concetto, e poi si conclude nel terzo. (...)
Ho raccontato questi ed altri aneddoti sulla storia e l’evoluzione del blues nell’ampia e confortevole sala museale del Cruto, venerdì scorso, affollata da amici e intenditori mischiando Parole e Musica in un crescendo che ha visto prima me in un paio di solitari pezzi, poi l’arrivo di Andrea (detto Rolex) e della sua seicorde, poi il supporto del basso e della voce nera di Marcello e infine i BlueStyle in tutto il loro splendore con Miki alle tastiere e Dario con una snella batteria elettronica, adatta al palco ristretto. Bella serata, con un pubblico attento e partecipe. Ma che aggiungere altro? Bravi amici hanno registrato e filmato e immortalato ogni cosa. Quella serata è ormai Storia!
THE PUSHER
A Maurizio basta un’occhiata. “Ciao Franco. Che brutta faccia. Cosa ti do stavolta?” Recupero faticosamente la mano destra che, dopo una permanenza di qualche secondo nella sua zampa d’orso, sembra una frittatina alle cipolle e borbotto: “Ciau Mau. Ho bisogno di qualcosa di forte. Vorrei un suono da porco sudato”. Maurizio sogghigna alla sua battuta preferita. Il copyright è di Frank Zappa che descriveva così il suono grosso e pieno della Gibson Les Paul, ma ormai è diventato il nostro tormentone. Ed è il segnale per scegliere la mia dose sfrucugliando fra chitarristi tosti, grintosi, carichi; sotto quell’etichetta possiamo trovare Gary Moore o Michael Schenker o Ronnie Montrose o Popa Chubby o Billy Gibbons o Stevie Ray o Gary Rossington o Frank Marino o Neal Schon o Rick Derringer e qualche volta Steve Lukather, Alvin Lee, Jeff Beck. A meno che Maurizio non s’interrompa di colpo, stringa le labbra, alzi un indice delle dimensioni di un candelotto di dinamite per pretendere attenzione e poi cavi dal suo cappello a cilindro qualche proposta sconosciuta, qualche novità, qualche nome mai sentito prima, qualche impensabile bomba che lui, con il suo naso… pardon, orecchio da can da trifole ha scovato in qualche catalogo inglese, americano, tedesco o russo (sì, possiedo anche una straordinaria compilation di chitarristi sovietici. Non vi faccio i nomi, non per egoismo o gelosia ma perché l’album è d’importazione e le note di copertina sono in cirillico).
Siamo a Torino, in via Nicola Fabrizi. Sulla porta c’è scritto “Doc Valery” e Maurizio è noto in rete come “Quello dei Dischi”. Il nome del negozio… (che parola squallida! credo che “tempio” o “santuario” sarebbero più adeguate, ma so che Maurizio non vuole tirarsela e quindi lasciamola) è una dedica a suo padre che lui sin da piccolo chiamava solo Doc. Responsabile della sua esistenza terrena ed anche del suo percorso spirituale poiché è da lui che il nostro eroe apprende l’amore per le sette note, il vibrare di una chitarra ed il pulsare torrido degli amanti basso-batteria.
RIDATECI GLI ASSASSINI DI AGATHA!
Sono anni che lo ripeto e adesso ho deciso di formalizzare la mia protesta: non ne posso più dei serial killer!!! Sono stufo marcio di pazzi, sadici, disturbati, alienati, dementi, maniaci, mentecatti con la psiche a cavaturaccioli, più forata di un groviera, andata a male, putrefatta e puzzolente, che improvvisamente si mettono ad ammazzare a casaccio seguendo voci interiori, spinte demoniache, intricati disegni, raptus incontrollabili o gelide geometrie per vendicarsi fuori tempo massimo di madri, nonne, zie, sorelle, vicine di casa, cani, baristi, sergenti, assicuratori, vigili del fuoco sbuzzando, affettando, bruciando, sventrando, forando, cucendo, cuocendo, imbalsamando, mangiando donzelle, bambini, famiglie, studentesse, fattorini, bibliotecari, bagnini, portieri lasciando inquietanti indizi, trucide sfide, macabre tracce, orridi graffiti, oscuri messaggi, aforismi, liste, insulti, indovinelli, citazioni e deliri! Non sopporto più Annibale il Cannibale, né quello dei sette peccati capitali, quelli nati assassini e tutti i pazzoidi di Faletti. Mi hanno tolto il gusto del “giallo”. Che merito c’è a sfidare il lettore o lo spettatore portando sulla scena un pazzo? È pazzo e ammazza chi gli pare, no? Come si fa a ricostruire il movente, a smascherare l’alibi, a intuire il cui prodest, a identificarlo nel gruppo dei sospettati? Per me l’unico poliziesco serio e credibile è quello classico, di Agatha Christie, di Conan Doyle, di Van Dine, di Rex Stout, di Earl Derr Biggers. Poirot, Miss Marple, Sherlock Holmes, Philo Vance, Nero Wolfe, Charlie Chan avevano a che fare con casi normali, con moventi normali e assassini onesti, persone come voi e come me, spinte da ragioni comprensibili e condivisibili: ammazzare il marito per risposarsi con uno più fresco e più bello, vendicarsi di un sanguinoso affronto, far sparire un intero asse ereditario per rimanere l’unico erede, eliminare una ricattatrice, un socio d’azienda, il seduttore della figlia, un pericoloso testimone, un rivale in amore, un ostacolo per la carriera!
EMOZIONI FUORI CAMPO Concerto Out Of Range - Società Operaia di Ciriè, 24/11/2012
Sera. Silenzio. Strade vuote. Testa vuota. Pancia vuota. Sangue pigro. Apnea. Stasi. I marciapiedi di Ciriè echeggiano distratti il ritmo cadenzato dei miei passi senza accorgersi che io sono tutt’uno – da sempre – con silenziose suole di gomma. Prima che se ne rendano conto io sono già oltre. Robbie Robertson: “Il lontano neon rosso lampeggia nel buio / mi sento uno straniero in terra straniera / io so dove la gente gioca con la notte / seguo il suono di un juke-box che scivola nella strada”. Ma non è un juke-box, è il brontolare del basso di Umberto e il fruscio della batteria di Salvo. Un attimo dopo si alza una voce che conosco bene, la voce inconfondibile di Donata. Sono sulla strada giusta.
LE HARLEY E I BLUE WEST Concerto Blue West – Ponzano Monferrato, 1/6/2014
“Hanno suonato per voi: da Tulsa, Oklahoma, arrivato fin qui in autostop su un gigantesco autocarro a sedici ruote... alla batteria e percussioni: Daniele Protano! In licenza temporanea dal suo reggimento, il Sesto Cavalleggeri Alabama... basso, contrabbasso e voce: il colonnello Marco Ravizzotti! Dal Texas, velocissimo con la sua sei colpi... pardon, sei corde... chitarra solista: Andrea “Rolex” Roletto! Dalle sue piantagioni nel profondo Sud, in Virginia (o era Cuneo?)... chitarra e voce: “The Governor” Fulvio Grosso! Dal Kentucky (e dalla sua distilleria clandestina di bourbon)... dobro, armonica e voce: Franco Nervo!... ma tenetevelo per voi, ragazzi: un sacco di sceriffi darebbero un anno di paga per sapere dove beccarmi!”. La presentazione ammicca alle canzoni suonate oggi: Tulsa Time, Oklahoma borderline, Sweet Home Alabama, Pecos Bill, eroe dello stato della Stella Solitaria, Take me home country road, Kentucky means Paradise e un’altra manciata di pezzi di tutti e due i generi, come direbbe il vecchio Bob (o meglio, sua moglie Claire), proprietario dello “splendido localino” Bob’s Country Bunker in Cocomo, Illinois: il country e il western. E, come i Blues Brothers, anche noi, i Blue West, dobbiamo fare attenzione e avere rispetto del nostro pubblico poiché è formato da una torma di grintosissimi bikers ricoperti di pelle e rigorosamente montati su cromatissime e rombanti Harley. Siamo infatti a Ponzano Monferrato al 1° Tour Harley Davidson “Tra colli e castelli del Monferrato”, ingaggio ovviamente raccolto dall’ottimo Fulvio, che fra queste colline è di casa.
MY RIFLE, MY PONY AND ME Guida personale e faziosa al genere western
Poche donne (mia madre era un’eccezione) apprezzano i film western. In genere è un genere da maschietti, con un cast dove le fanciulle raramente emergono per interpretazioni e ruoli memorabili. È un genere circoscritto a un periodo storico (la seconda metà del XIX secolo, con poche eccezioni), a un territorio (l’Ovest degli Stati Uniti, come pretende il nome), regolarmente imbottito di violenza, sparatorie, soprusi, sfide e vendette. I cattivi sono per lo più impersonati da spietati fuorilegge, sanguinari pellirossa, prepotenti allevatori, reggimenti stranieri (messicani o francesi); i buoni di regola sono in inferiorità numerica, sceriffi solitari, taciturni pistoleri, rocciosi ufficiali dell’Unione, confederati sconfitti e in cerca di riscatto; salvo qualche caso in cui le carte vengono sapientemente mischiate e la storia presenta sfaccettature e soluzioni inedite. Amo il western. Mischiando i suoi limitati colori primari (il rosso della violenza, il blu della solitudine, il giallo dell’eroismo) e nonostante i suoi prefissati confini, riesce a trarne storie variopinte ed emozionanti. Voglio qui presentarvi una selezione, una classifica dei miei preferiti, quelli che sono sempre pronto a rivedere.
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